Settembre 27, 2022

In prossimità delle elezioni non si poteva non discutere di un tema tanto dibattuto quanto importante relativo al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Esso, infatti, altro non è che un enorme concessione di soldi da parte dell’Unione Europea volta ad aiutare la ripresa economica e sociale di paesi che sono stati fortemente colpiti da quest’ondata tanto violenta quanto inaspettata data dalla crisi pandemica. Riduzioni del PIL, aumento della disoccupazione, stagnazione delle economie con un aumento dei prezzi e degli outlook continuamente rivisitati e spesso troppo ottimisti e dunque mai rispettati hanno messo nella condizione degli stati europei che ne avevo la possibilità di appoggiarsi a queste misure che possono spaccare in due un paese dividendo fortemente l’opinione pubblica. Vorrei chiarire prima di addentrarmi sulla descrizione di cosa sia questa misura attuata per l’aiuto di stati e dunque, popoli, è solo l’antenna che deve necessariamente essere collegata ad un mondo sottostante impossibile da riportare in poche pagine di articolo. Ciò che va messo meno e dunque per esigenza semplificato sono tutte le conseguenze che l’Europa, positivamente o negativamente ha portato con la sua sovranità monetaria, militare e di politiche sociali. Non si può dare una colpa a chi pensa che queste misure siano un errore perché si viene meno al senso comune di senso europeo, e dunque facente parte di un’organizzazione nata per il bene comune di commercio con ultimo fine prosperità e fine di scontri intestini. Le motivazioni di base che hanno portato infatti all’inizio di questa infrastruttura non è altro che la CECA (1951) per poi proseguire e divenire sempre più complessa nel suo funzionamento nel corso del tempo. Allora si volle dare una ragione economica, un legame tra stati che avrebbe non permesso un ripetersi della Seconda guerra mondiale e che dunque, tramite legami di necessità economica si sarebbe andati oltre, insieme.

Fatta questa premessa negli ultimi 70 anni siamo stati testimoni di enormi cambiamenti sull’utilizzo e funzionamento di organizzazioni come l’Unione Europea e ciò che ogni stato ha dovuto rinunciare per un bene comune. Un punto di rottura avvenne durante il Covid quando in piena necessità si ebbero delle difficoltà a trovare dei punti di accordo tra i diversi Stati e che misero sotto una lente di ingrandimento (che metaforicamente può essere vista come appunto la crisi) le distanze che ancora oggi ci sono tra i differenti paesi e di come si è pensato prima al bene proprio per poi pensare al comune.

Detto questo, l’articolo analizza in modo imparziale un argomento che per dare un contributo veritiero non deve prendere partito (politico) e si limita a riportare dei fatti da considerare oltre i punti più rilevanti di questo piano aiuti fornito dall’Europa.

Iniziamo dunque parlando di cosa si tratta e di quali cifre.

Il Pnrr non è altro che un documento predisposto dal governo italiano con l’obiettivo di illustrare alla Commissione Europea come si intende investire i fondi del programma Next generation EU.

Proprio per la quantità di fondi dati negli anni passati all’Europa, in quanto derivanti da una percentuale del PIL, l’Italia sarà il paese che riceverà più riserve pari a 191,5 miliardi. Ovviamente, l’aiuto che viene dato non dipende solo da quanto versato negli anni precedenti ma dalla dimensione del debito che lo stato detiene e dalla necessità di nuovo carburante per permettere la ripartenza di questa macchina economica dipeso dalla grandezza della battuta d’arresto subita nel corso di questa crisi pandemica.

Va specificato che i soldi che si ottengono non sono “regalati” dall’Europa ma che buona parte viene messa sotto condizione di debito vero e proprio, avendo degli oneri futuri verso l’organizzazione. Difatti, di questi quasi 200 miliardi, 68.9 saranno a fondo perduto mentre 122.6 miliardi saranno concessi sotto forma di prestiti. Oltretutto si dovranno aggiungere 30.6 miliardi del piano complementare stanziati dal governo italiano lo scorso anno tramite decreto-legge e i 14 miliardi che si otterranno grazie al programma di “assistenza alla ripresa per la coesione ed i territori d’Europa” (React-Eu).

Al momento ci sono 6 differenti missioni in cui il governo ha deciso insieme all’Europa di investire (riporto insieme all’Europa in quanto se non dovesse venire ripatteggiato sarebbe accettato così come riportato):

  • Missione 1: digitalizzazione, innovazione, cultura e turismo (41 miliardi);
  • Missione 2: rivoluzione verde e transizione ecologica (circa 60 miliardi);
  • Missione 3: infrastrutture per una mobilità sostenibile (circa 25 miliardi);
  • Missione 4: istruzione e ricerca (31 miliardi);
  • Missione 5: coesione e inclusione (circa 20 miliardi);
  • Missione 6: salute (circa 15 miliardi).

Ognuna di questa area/settore, dunque, verrà implementata grazie all’utilizzo dei fondi destinati, permettendo delle analisi quantitative sugli effetti benefici che avranno sullo sviluppo dell’economia italiana data da due differenti fronti, il Mef e l’UE.

Iniziando dalle stime della Commissione europea si indica che entro il 2026 il PNRR italiano aumenterà il PIL dall’1,5% al 2,5% creando quasi un quarto di milione di nuovi posti lavoro.

Dall’altra parte il Mef molto più ottimistiche confida in un impatto sul PIL pari a 3,6% entro il 2026 fornendo dei dati su alcuni impatti specifici che si sperano di ottenere tramite questi fondi.

Partendo dalla Missione 1 digitalizzazione, innovazione, cultura e turismo:

  • 100% delle persone connesse entro il 2026
  • Connessioni veloci per 8,5 milioni di famiglie e imprese, 9000 scuole e 12000 centri del Servizio Sanitario Nazionale;
  • Approccio digitale per il rilancio del turismo e della cultura

Missione 2 rivoluzione verde e transizione ecologica:

  • necessità di migliorare il riciclo dei rifiuti (+55% sul materiale elettrico, +85% sulla carta, +65% sulle materie plastiche, +100% sul materiale tessile)
  • riduzione delle perdite di acqua potabile sulle reti idriche;
  • ulteriori 50.000 edifici pubblici e privati più eco-efficienti per un totale di 20 milioni di metri quadrati di edifici più eco-efficienti;
  • sostegno alla ricerca sull’uso dell’idrogeno nell’industria e nei trasporti

Missione 3 infrastrutture per la mobilità sostenibile:

  • adeguamento e potenziamento delle reti ferroviarie regionali
  • tempi ridotti sulle linee ferroviarie come, ad esempio, di 1h20 su Roma-Pescara, 1h30 su Napoli-Bari, 1h su Palermo-Catania e 1h su Salerno-Reggio Calabria
  • investimenti nei “porti verdi”

Missione 4 educazione e ricerca:

  • 228.000 nuovi asili per bambini da 0 a 6 anni;
  • 100.000 aule trasformate in ambienti di apprendimento connes-si;
  • ristrutturazioni scolastiche per un totale di 2,4 milioni di metri quadrati;
  • cablaggio di 40.000 edifici scolastici;
  • 6.000 nuovi dottorati di ricerca a partire dal 2021.

Missione 5 inclusione e coesione:

  • programma nazionale per garantire l’occupabilità dei lavoratori (GOL);
  • sostegno alle imprese femminili attraverso il Fondo Impresa Donna;
  • maggiore sostegno alle persone vulnerabili, non autosufficienti o con disabilità;
  • investimenti infrastrutturali per le Zone Economiche Speciali.

Missione 6 salute:

  • 1.288 case di comunità e 381 ospedali di comunità per l’assistenza sanitaria di prossimità;
  • assistenza domiciliare per il 10% delle persone di età pari o superiore a 65 anni;
  • 602 nuovi Centri Operativi Locali per la teleassistenza;
  • più di 3.133 nuove apparecchiature di grandi dimensioni per la diagnostica e la cura.

Fatto la premessa a livello quantitativo bisogna concludere l’articolo con, per quanto mi riguarda, la riflessione più importante che verte sul “perché allora si contrasta?”

Ovviamente, proprio perché fatto dal governo italiano si vanno a toccare tematiche che stanno a cuore di una classe politica che normalmente, ha tutto l’interesse che esse vadano a implementare lì dove ci sono lacune ed migliorare la vita della sua classe operaia e del suo popolo più in generale. Una vita più pulita, più funzionale e più protetta.

Ma purtroppo c’è sempre un altro lato della medaglia che va a rendere il bianco più grigio. Questo piano concordato tra Draghi e Bruxelles ha anche un conto da pagare che non risiedono solo nella mole dei prestiti (ricordiamo 122.6 miliardi) ma anche nelle riforme che si pretendono vengano fatte in Italia dall’Europa. Si chiede dunque un cambio del funzionamento dell’Italia che va a toccare diversi aspetti, tra cui quello fiscale. Oltre che riforme, inoltre, ci saranno indicazioni sulle tempistiche da seguire che dovranno essere compliant con quanto richiesto per permettere il corretto funzionamento del prestito che l’Europa si aspetta.

Gli appalti pubblici, concessioni, ammortizzatori sociali e sburocratizzare per accelerare i tempi della giustizia. Questi programmi vincolano l’esecutivo guidato inizialmente da Draghi (quando era stato presentato) e poi da chi salirà in potere con le prossime elezioni del 25 settembre. Nel momento in cui ci fossero dei ritardi sulla tabella di marcia, Bruxelles fermerà i fondi congelandoli e non rendendo più possibile il loro utilizzo creando non poco scompiglio per dei piani che sicuramente saranno stati già finanziati e iniziati. Oltretutto c’è il problema del debito che si attestava alla fine del primo trimestre del 2022 a 152,6% debito/PIL.

Ciò che sta alla base dello sviluppo di questo piano, dunque, è la speranza che le misure e gli investimenti previsti creino una crescita sperata, permettendo dunque di aumentare la dimensione del PIL in una misura importante per i prossimi quattro anni, facendo ridurre così facendo la relazione debito/PIL. Un problema che oltretutto si ripropone e ronza sempre nelle orecchie di noi italiani è che quando si vanno a pensare queste grosse somme in mano a capi politici o pubbliche amministrazioni ci ritroviamo a trovarci lì, in quel luogo comune che più che funzione di pregiudizio lo userei come un salotto che noi tutti ci troviamo d’accordo a discutere complici di ciò che abbiamo assistito dagli anni ’90 in poi. Per dare un pensiero riporto testualmente uno scorcio di intervista fatta da Valerio Baselli a Gustavo Piga, docente ordinario di Economia politica all’Università degli studi di Roma Tor Vergata, esperto di politica monetaria, della gestione del debito pubblico e di questioni legate all’Europa:

Piga “Abbiamo evidenza che in Italia, come in tanti altri Paesi, gli sprechi sono grandi, rappresentano in modo complessivo, non solo del Recovery Fund, ma degli appalti pubblici in generale, più del 3% del Prodotto interno lordo, stiamo parlando di 60 miliardi di sprechi che potremmo evitare. Con cosa? L’evidenza empirica ci dice che l’83% degli sprechi è dovuto a incompetenza e solo il 17%, che comunque rimane un numero grande, a corruzione. Il che è una buona notizia, perché se lo spreco è dovuto a incompetenza, sappiamo cosa dobbiamo fare. Dobbiamo creare una governance di stazioni appaltanti professionalizzate e lo dobbiamo fare presto, perché i giovani che dobbiamo assumere per queste stazioni appaltanti così fondamentali, strapagandoli perché poi porteranno a casa una marea di cancellazioni di sprechi, hanno bisogno dei vecchi per imparare il mestiere, e i vecchi stanno andando in pensione. E siccome sono dieci anni che non facciamo questo, ora il rischio è che prendiamo tanti giovani e poi li buttiamo nel vasto oceano senza la ciambella dell’aiuto dei vecchi che hanno più esperienza. Quindi, se il governo attuale non lo ha fatto, il prossimo dovrà metterlo come priorità. Sul PNRR, ma anche sull’enorme galassia degli appalti pubblici, su cui spendiamo il 15% del PIL”.

Cosa dovrebbe fare il prossimo governo, a prescindere da quale sia, con il PNRR, secondo lei? E quali margini di manovra ha davvero Roma in questo senso?

Piga: “Su questo ha un margine di manovra enorme, anche perché la Commissione europea lascia liberi i Paesi di farlo. La questione è decidere il tipo di governance da dare alle stazioni appaltanti competenti. Ci sono tre opzioni: lasciare le cose come stanno con 30mila stazioni appaltanti, concentrare tutti in una ventina di stazioni appaltanti per lo più regionali, oppure trovare una soluzione intermedia di 150-200 stazioni appaltanti legate alle province. Io preferisco quest’ultimo modello da tempo, perché l’estrema frammentazione nuoce, ma nuoce anche l’estrema concentrazione perché fanno gare grandi e questo non dà la possibilità di partecipare e vincere alle piccole imprese che sono il nostro volano di affermazione nel mondo.

E quindi un modello di governance dove tu assumi giovani professionisti strapagati per governare il territorio, magari con una cabina di regia centrale, per rispettare le esigenze del territorio e che allo stesso tempo portino a casa enormi risparmi e qualità, il Paese a quel punto ridiventa competitivo perché la nostra mancanza di competitività è tutta legata alle cattive gare che facciamo e che in ultima analisi sono le infrastrutture complessive all’interno delle quali le imprese devono convivere. E siccome la Germania fa gli appalti meglio di noi, le piccole e grandi imprese tedesche lavorano molto meglio di noi quando si trovano su mercati internazionali. Questo dobbiamo fare e la Commissione europea su questo ci dà carta bianca”.

Per concludere dunque vorrei riassumere in due punti i principali punti che come appassionato di economia e geopolitica riporto:

Troppi sono stati gli esempi di prestiti onerosi da parte di istituzioni internazionali che hanno portato a vincoli improbabili da mantenere, finendo succube di decisioni prese da altri per il nostro paese e perdendo la possibilità di esprimersi e operare come meglio si credeva. Molteplici furono ad esempio interventi del Fondo Monetario Internazionale con misure di ultima istanza che avrebbero dovuto essere una scialuppa di salvataggio trasformandosi poi in ancore. Ma una differenza sostanziale che deve essere ricordata è la possibilità di scelta che noi abbiamo oggi in quanto paese.

L’Italia è uno dei paesi al centro dell’Europa che assieme ad altre potenze mondiali come Francia e Germania rappresenta fonte di ispirazioni per diversi settori e che fino a qualche decennio fa spargeva avanguardia. Ma oggigiorno, a seguito di diverse misure e scelte sbagliate ci siamo ritrovati ad avere una grande necessità di nuovi investimenti che permettano la ripresa della crescita. Tutti i punti che vengono riportati nel PRNN sono missioni che risultavano di primaria importanza due anni fa e che ora, sebbene ci sia una immensa crisi energetica in atto, necessitano ancora di essere implementate e essere considerate come prioritarie. Si è all’interno dell’Europa non solo per dare o avere limitazioni ma anche per ricevere, e ora, sebbene solo una parte dei soldi sia a fondo perduto è il momento di ricevere per implementare settori che necessitano rivisitazione. Lo snellimento richiesto dall’Unione Europa e un aumento della tassazione deve avvenire a prescindere che venga obbligato se vogliamo avere un rientro di investimenti esteri e una riduzione del debito pubblico, passando comunque periodi difficili nel mezzo. Ma queste alla fine sono decisioni che si riportano al capitale umano, la fonte più grande di ricchezza che si possa avere e che debba essere utilizzata propriamente nei giusti settori con il giusto personale (si pensi anche al progetto di rigenerazione nelle pubbliche amministrazioni, dove si pretende di fare una transizione verso l’hi-tech con un personale che per obbligo di cose non può essere usato).

About the author 

lorenzoparadisi0510@gmail.com

Laureato in Lingue Aziendali all'Università degli Studi di Urbino, sto ora conseguendo la laurea magistrale presso l'Università degli studi di Parma in International Business and Development.
Appassionato di micro e macroeconomia e del mondo della finanza, vanto una conoscenza approfondita della lingua francese (madrelingua) e lingua inglese (C1). Completato un Erasmus alla KEDGE Business School di Bordeaux e un'esperienza estera ufficio acquisti/vendite a Parigi.

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